Il filo dei panni
Quando ero ragazzo, abitavo con mia madre in una stanza dei padiglioni Guglielmi, situati tra la Fiumaretta, il cimitero e Vigna Turci. Il confine che ci separava dalla nostra vicina di casa era il filo dei panni.
Un muro invalicabile, protezione e riparo, che divideva un mondo dall'altro, una famiglia da una parte e noi dall'altra.
La nostra vicina era affabile, possedeva un cane amichevole chiamato Bonasera e viveva serenamente con la sua famiglia oltre le mutande.
Le mutande, i grembiuli da cucina, le lenzuola consumate degli altri erano parte del paesaggio, pareti di tessuto mosse dal vento, mura simboliche e sfacciate.
Al mattino, le due donne scambiavano quattro chiacchiere oltre il reggiseno, tra le magliette dei figli e l'asciugamano sbiadito del bagno, nella bagnarola della domenica mattina.
Poi, mia madre o la vicina spostavano la sedia da una parte all'altra delle mutande e si avventuravano nel territorio altrui, commentando le previsioni del tempo o discutendo del film in bianco e nero trasmesso in TV la sera precedente. A volte, si scambiavano un caffè o un biscotto.
Così dovrebbe funzionare il mondo oggi. Un filo per stendere i panni, due mutande che sventolano sul confine, sorrette da due mollette di legno scolorite dal sole, un confine che si può attraversare per prendere un caffè.
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