Pasquetta


Non festeggio da tanto immemorabile una Pasquetta come si deve.

Intendo con ragazzi e ragazze che giocano, con tovaglie sull’erba, mangiando come rinoceronti, facendo a piedi chilometri andata e ritorno fino alla prima torre.

Un’ultima pasquetta passata così l’ho fatta quando il ragazzo ero io, i grandi era mia madre, qualche sua famiglia amica e a volte ci sarà stato il mio fratellone venuto da Roma con prole, moglie e due fiaschi di vino dei castelli.

Il panino con la frittata di patate, le fave e il pecorino.

Le carte.

Il pallone che avventava.

I racconti sulle quotidianità dei grandi.

Il partito comunista.

Il vestito buono indossato da me il giorno prima alla messa in cattedrale e devastato dalle patacche a Pasquetta.

Serena normalità.

Della quale mi chiedevo ieri a pranzo cosa sia filtrata, attraverso il colino degli anni, nei miei nipotini, ascoltati ieri mentre mi parlavano di cosa fanno a scuola, del loro nuovo insegnante di italiano nato in Svezia da genitori immigrati come me.

Li ho spiati mentre parlavano, per scoprire se un po’ mi assomigliano, se un po’ mi ricordano me da ragazzo, nelle dinamiche, nelle corse, nelle lotte fisiche e in attesa dello sguardo della ragazza più bella.

Credo che mi somigliano.

Esiste un modo di essere giovani che resiste al passare del tempo, che prevede passaggi simili, raccontati con voci, toni diversi in posti diversi ma medesimi.

Esiste un modo per guardare i nipoti senza sentirsi troppo vecchio ed è quello di contemplare, finalmente con dolcezza, il ragazzo che siamo stati noi.

Oggi una passeggiata fino al torrente. Poi a casa per la partita della Roma.

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ANCORA CALDI

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