Una volta la detestavo


Credo che questa pizza pasqualina per essere apprezzata abbia bisogno di una certa maturità. Antica delicatamente aromatica, seducente. La pizza di Pasqua vanto cittadino della Piccola Città regnava suprema a casa nostra. Per gli adulti. Non per me! Chissà, forse sarà stata colpa dell’accento esotico dell’anice, oppure della strana presenza del alchermes, ingredienti non comunissimi nei dolci.  

Fatto sta che io, da ragazzino, proprio non potevo vederla. E non comprendevo tutto l’entusiasmo dei grandi, in attesa della resurrezione di nostro signore per questo strano dolce. Come ogni anno, era la gentilissima signora Ogna al Faro amica di mia madre a far sì che venissero infornate nel suo forno a cupola nell’orto dietro la casa.  

Che poi mia madre con grande fatica portava a casa in grosse sporte fatte da piccoli triangoli di diverso colore cuciti tra loro. Le pizze una volta arrivate a casa venivano posate cerimoniosamente sul ripiano del comò, coperte poi da panni da cucina, odorosi freschi di bucato. Da non toccarsi fino al giorno di Pasqua dopo pranzo. Pena il battipanni oppure la mestolata di legno per girare il sugo di Pasqua.

E chi la toccava?

Infatti, duravano piuttosto a lungo, dal momento che era solo mia madre a gustarne una fettina o due al giorno.  La pizza di Pasqua alle medie mi mise anche nei guai col professore d’inglese.  Mi spiego.  Mi era molto antipatico, il professor C, anzi mi aveva proprio rovinato l’interesse che avevo da sempre per questa lingua.

Presuntuoso, un pallone gonfiato, credeva di essere il principe della lingua inglese, quasi al livello con la regina Elisabetta; non aveva un minimo di pazienza con noi ragazzini di undici-dodici anni che cercavamo con gran fatica d’imparare quella strana, diversissima lingua. 

Ed io, che morivo dalla voglia di parlarla da quando avevo conosciuto i miei cugini londinesi, da poco incontrati a Roma, fui molto deluso dalle lezioni. Ero proprio terrorizzato di lui, tremavo quando mi faceva una domanda, per paura di dare una risposta sbagliata.

Comunque, poco prima di Pasqua, lui cominciò a parlare della gloria della pizza di Pasqua vanto cittadino, quel sapore divino, quel profumo paradisiaco dell’alchermes…ed io feci il grande errore di annunciare, anche se sottovoce, che a me non piaceva per niente.

Tuoni e fulmini seguirono!

Si offese come se gli avessi detto che era un'imbecille (lo era), altamente infastidito dalla mia opinione immatura. Non presi mai più di uno striminzito sei sui compiti, e anche quello a stento. 

A fine anno supplicai mia madre di iscrivermi all’altra sezione, la B di mattina. Dove ebbi poi una fantastica professoressa d’inglese, la signorina Marolda figlia del direttore del carcere cittadino dove abitava con la sua famiglia.

Mora, bella, elegante con la sua gonna/tessuto scozzese allacciata con spillone laterale, me la faceva immaginare di coscia forte.

Diventai il primo della classe! 

Beh, gli anni (tantissimi) sono passati, il mio palato è maturato, e la meravigliosa pizza cittadina è l’unico dolce che quassù mi manca per Pasqua. Bella grande dal cappuccio leggermente bruciacchiato, fragrante di anice e alchermes, tipicamente civitavecchiese, profumatissima, splendore della cucina laziale.

Buona Pasqua a voi tutti, amici e amiche! 

Vi auguro gioia infinita ed una bella fetta di Pizza Pasqualina!

*****💓



ANCORA CALDI

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