L’imbiancatura della stanza


Quando ero ragazzo per Pasqua c’erano preparativi che iniziavano un paio di settimane prima. L’imbiancatura dell’unica stanza dove mangiavamo e dormivamo. Dove io studiavo sul tavolo con il piano di marmo durante i pomeriggi passati da solo. Non prima di aver riscaldato e mangiato la solita minestra di pastina e piselli lasciatomi da mia madre la mattina prima di andare a lavorare.

L’imbiancatura della stanza era una costante che toglieva il fumo sparso dell’inverno dalla stufa economica che andava a legna comprata a credito dal signor Ranzoni alla Madonnina. Dopo l’imbiancatura sarebbe odorata di calce bianca pulita durante tutto il periodo pasquale.

Questo trattamento di favore era riservato a questa unica stanza per accogliere la famiglia del mio fratellone. Moglie e due bambini al seguito i quali sarebbero arrivati da Roma per il pranzo di Pasqua. L’altra stanza invece dove non stavamo mai restava in tinta celeste pastello. Era diversa perché il bianco restava solo in quell’unica stanza e l’altra rimaneva celeste pastello.

La cerimonia della rii-pittura coinvolgeva ogni anno oltre ad un vicino volontario armato di buona volontà anche me e mia madre ed era tutto uno stendere di lenzuola consumate dagli anni. Di giornali vecchi, di stracci rimediati durante l’anno pronti per togliere le macchie appena formate. Questo era un lavoro riservato esclusivamente a me del quale andavo anche un po’ fiero. Pulivo per bene dietro i pochi mobili e sullo zoccolo raschiavo anche gli spruzzi dell’anno prima.

La finestra aperta portava il profumo dell’orto del tolfetano e del suo melo in fiore. Mentre mia madre si apprestava al lavoro ulteriore che avrebbe seguito la pittura. Lavare il pavimento di cemento con varecchina diluita nell’acqua cosa che avrebbe impedito il camminare per mezza giornata e avrebbe conservato l’odore acre per almeno due o tre giorni. Avevamo organizzato una vera catena di montaggio con cottimisti volontari.

Un giorno di lavoro intenso, con la difficoltà del soffitto e l’abilità del vicino a far gocciolare il meno possibile, poi con una stanza che sembrava nuova soprattutto per i profumi di pulito, cominciava l’impasto delle pizze di Pasqua, che poi erano sempre le stesse: Le pizze tipiche della tradizione della Piccola Città. Profumate e fragranti meglio di quelle industriali intendo.

Di pizze ne venivano fatte per consumo e per regalo, da un minimo di sette in su, la disponibilità di uova fresche era assicurata dal pollaio del vicino Casale Marconi. Anche il latte era assicurato dal lattaio Piero che arrivava con il furgone/ape tutte le mattine. Bisognava comperare lo zucchero, l’aroma di vaniglia i semi di anice e un bicchierino di Alchermes.

Ricordo che venivano fatte lievitare sotto una montagna di vecchie coperte nel letto dove io avrei dovuto dormire. Così la notte la passavamo a meditare. La mattina dopo queste pizze infornate una alla volta e cotte nel forno della stufa economica a legna, si accumulavano nell’unica stanza imbiancata di fresco, quella dove stavamo tutto il giorno, e mescolavano il profumo di zucchero, anice e Alchermes in un bouquet unico, perché malgrado tutto era il sapore della nostra casa e della festa.

C’era da aspettare solamente il prete cappellano del Cimitero che sarebbe venuto a benedirle. Malgrado la fame di quegli anni non si potevano ne mangiare ne assaggiare prima dello scioglimento delle campane. Avremmo fatto peccato. Gesù non sarebbe stato contento.

Io da ragazzo un po’ di fame ce l’avevo quasi sempre. Per questo non capivo ma non chiedevo niente. Oggi da vecchio ho capito che ci sono cose più grandi di noi. Cose che impariamo con il tempo e non smettiamo mai di capire.

Adesso provo a dormire un po’!

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ANCORA CALDI

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