Molte pasque le ho passate in campagna
Molte Pasque le ho passate in campagna. Di alcune ho un ricordo particolare che come tutti i ricordi è più impressione che fatto, di altre mi è rimasta la sensazione che avrei preferito essere altrove. In molte Pasque che ho vissuto da solo o in compagnia, non c’era neppure il dato umano delle piazze davanti alle chiese gremite di persone auguranti, le mie, semplicemente si svolgevano in campagna dove mio zio aveva un casolare. Arrivavano i parenti a salutare ed io che c’entravo abbastanza poco, mi godevo la campagna prima dell’estate.
I campi davanti casa erano ingombri di residui della civiltà contadina. Qualche moria di polli, un temporale di primavera, mastelli in legno dal colore inusuale, le zolle grigie in attesa di di essere arate. C’era un pranzo particolare, molte chiacchiere, di quelle che non affondano nel personale, perché non sta bene, e parecchio vino e caffè. Così arrivava il pomeriggio e la sensazione di una giornata strana che sarebbe stata riscattata dal lunedì con una scampagnata fino al fiume. Se il tempo avrebbe retto.
In quel posto per me a Pasqua, era la campagna la grande protagonista, con il suo aspirare pensieri, stavo insieme con i miei parenti, ero contento, nessuno mi aveva forzato ed emergeva la capacità delle campagna di farmi stare in famiglia. Questa era la solitudine di quei campi ancora da arare e qualche covone ancora da arrotolare.
Accarezzato dal vento e con il primo sole tiepido, tutto
questo mi pareva una dimensione bella e positiva, che magari non c’entrava
nulla con il giorno e la ricorrenza, ma apriva una alternativa alle abitudini,
alle feste obbligate.
Poi sarebbe arrivata la sera e il ritorno a casa ma
quell’angolo di mondo sarebbe rimasto mio, solo mio.
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